
Martedì 20 maggio 2025.
“I Carri di Gedeone”. È questo il nome dell’operazione lanciata dall’esercito di occupazione per occupare l’intera Striscia di Gaza. Prima, c’erano obiettivi dichiarati e non dichiarati. Gli obiettivi dichiarati erano “sradicare Hamas e liberare i prigionieri israeliani”. L’obiettivo non dichiarato era l’espulsione dei gazawi. Ora non c’è più distinzione. L’obiettivo è far sì che l’intera popolazione di Gaza si sposti verso il mare, verso sud, verso Rafah, una città che l’esercito di occupazione ha quasi completamente raso al suolo. Dalle immagini satellitari, risulta distrutto il 90% delle case. Ciò significa che 2,3 milioni di persone dovranno dirigersi verso la zona di Rafah prima di essere deportate all’estero.
Trovo interessante il nome in codice dell’operazione. Come sempre, ci si può trovare una connotazione religiosa1, ma rimanda anche alla Storia. Il nome “Operazione Gedeone” risale al 1948 quando le milizie ebraiche assaltarono il villaggio palestinese di Beisan – oggi Beit She’an, che aveva una posizione strategica, e i suoi abitanti furono espulsi in Giordania2. Non è un caso che l’esercito israeliano abbia scelto questo nome per una nuova operazione di espulsione forzata.
“Terrorismo religioso ebraico?”
La storia si ripete. Stiamo vivendo una nuova Nakba. Dopo i nostri nonni, oggi tocca a noi essere espulsi dai nostri confini. Così l’opera iniziata nel 1948 sarà portata a termine. Tutta la Palestina sarà occupata da Israele. Perché, se il metodo funziona per Gaza, funzionerà anche per la Cisgiordania, grazie al silenzio della “comunità internazionale”. Ma la cosa più importante è il riferimento messianico, che non sembra scandalizzare nessuno. Se un movimento palestinese facesse riferimento al Corano o all’Islam per dare il nome a un’operazione, verrebbe etichettato come “gruppo terroristico islamico”. In questo caso, invece, noi siamo vittime del peggior terrore da parte di uno Stato. Ma nessuno lo chiama terrorismo di Stato, che anzi si dovrebbe chiamare “terrorismo religioso ebraico”, perché anche in questo caso si usa la religione per uccidere, massacrare, bombardare donne e bambini ed espellere centinaia di migliaia di persone dalla loro terra.
Chiamandoci “Amalek”all’inizio della guerra, Benjamin Netanyahu ha fin da subito posto il conflitto su un piano religioso. Il termine fa riferimento a un passo della Torah in cui si condanna gli Amaleciti – un’antica tribù nomade di cui non si sa molto se non che erano nemici d’Israele – alla distruzione totale: uomini, donne, bambini, neonati, feti, ma anche greggi, cavalli e case. È esattamente questo ciò che stiamo vivendo. Nessuno però ha il coraggio di usare questo termine, ma come ci sono degli islamisti che usano la religione per giustificare i loro massacri, così esistono dei suprematisti ebraici che fanno la stessa cosa.
Non si sono mossi
L’IDF occupa già tutto il nord della Striscia di Gaza, oltre a tutto il sud, compresa la città di Rafah. Ora sta per occupare anche tutta la parte orientale, una zona larga circa 1,5 chilometri, tra l’asse nord-sud – la strada di Salah al-Din – e il confine israeliano. Secondo voci che trapelano da Israele, l’esercito di occupazione avrebbe intenzione di dividere Gaza in cinque parti, delimitate dal “corridoio” Mefalsim a nord di Gaza City, dal corridoio Netzarim a sud della città, dal corridoio di Kissufim a sud di Deir al-Balah e dal corridoio Morag a nord della città di Rafah.
Gli israeliani spingeranno così gli abitanti della Striscia di Gaza da un corridoio all’altro. Gli sfollati verranno passati al vaglio attraverso questi corridoi di tortura, dove una parte di loro verranno arrestati e altri spinti verso sud, con ulteriori massacri. È quello che hanno fatto all’inizio della guerra, ma si sono resi conto che non funzionava, perché tra le 400.000 e le 600.000 persone sono rimaste lì. Assediati, affamati, mangiando fieno ed erba per strada e facendo bollire l’acqua per poterla bere. Eppure non si sono mossi. Senza contare quelli che sono rientrati con la tregua dell’inizio dell’anno.
Anche se non lo dicono, sanno che stiamo vivendo un genocidio
Per gli israeliani, ciò che non funziona con la forza funziona con un maggior uso della forza. Se non ci sono riusciti con i massacri e le carneficine, occorrono altri massacri e altre carneficine. Questo è ciò che stanno preparando, per spingere l’intera popolazione verso sud. Poi, chissà, verrà trasferita via mare verso altri Paesi. Di recente, abbiamo saputo che gli Stati Uniti stavano negoziando con la Libia per inviare un milione di palestinesi da Gaza, e con altri Paesi per accogliere decine di migliaia di gazawi. Così verrà risolto il problema di Gaza. Si dirà a queste persone che sono rinchiuse in una piccola gabbia, torturate, bombardate e affamate 24 ore su 24: “Se volete andarvene, potete farlo. Non vi obbligheremo”. Chi può dire che questo scenario non si avvererà? Anche se sembra che Trump abbia voltando in parte le spalle a Netanyahu spingendolo ad accettare un cessate il fuoco, oltre a far arrivare a Gaza gli aiuti umanitari. Finora, il numero di camion di aiuti annunciati è estremamente insufficiente alle esigenze della popolazione. Secondo le Nazioni Unite, Gaza avrebbe bisogno di 500-600 camion al giorno solo per gli aiuti di emergenza.
Tra i vari cambi di posizione in Occidente, spiccano però le dichiarazioni di Francia, Canada e Regno Unito, che hanno annunciato di voler adottare misure nei confronti di Israele. Non è mai troppo tardi. Si accontentano ancora di dire che è “una vergogna”, ma almeno non chiudono più gli occhi, e questo è già un buon inizio. Credo che, anche se non nessuno ha pronunciato questa parola, tutti capiscono che stiamo vivendo un genocidio.
Sanno di cosa è capace questo esercito
Anche se insufficienti, sono misure che dimostrano che, volendo, i Paesi europei possono intervenire sulla questione palestinese facendo qualcosa per fermare la guerra. La popolazione di Gaza è stremata, moralmente e fisicamente, a causa della fame, dei continui bombardamenti e degli spostamenti da un luogo all’altro, senza che si intraveda la fine della guerra. Di recente, sono stati di nuovo lanciati dal cielo dei volantini per indicare le zone da evacuare. Il mio quartiere di Gaza, Rimal sud, è uno di questi. Gli abitanti però hanno deciso di restare. E tra questi ci sono anch’io. Ieri è stato anche dato l’ordine di evacuare l’intera città di Khan Yunis. Stiamo parlando di 450.000 abitanti! A cui vanno aggiunti i circa 250.000 abitanti di Rafah che si sono rifugiati a Khan Yunis.
La popolazione non ne può più ed è per questo che in molti hanno scelto di non obbedire. Hanno deciso di rimanere, pur sapendo di cosa è capace questo esercito. Hanno già vissuto un’esperienza simile, hanno visto come quelli che sono rimasti durante le precedenti evacuazioni sono stati massacrati, giustiziati senza pietà, uomini, donne e bambini. Per l’IDF, chiunque non obbedisca a un ordine di evacuazione dev’essere ucciso. Ma ora alla gente non importa più di vivere o morire, per loro è la stessa cosa. Sono troppo esausti per spostarsi di nuovo. Gli è stato intimato di andare nella zona di Al-Mawasi, un’area sabbiosa in riva al mare. Per l’esercito di occupazione, questa prima era considerata una “zona umanitaria”. Oggi non lo è più. Per più di un mese, Al-Mawasi è stata bombardata quasi ogni giorno. Hanno colpito le tende degli sfollati e intere famiglie sono state uccise. Tutti sanno che non c’è più un posto sicuro dove andare.
Siamo ancora vivi, respiriamo, ma stiamo vivendo la morte. Ma non ce ne andremo. Chi è costretto a spostarsi lo fa solo per una distanza molto breve. Non vogliono andare verso sud, per rivivere ciò che la maggior parte di loro ha già vissuto.
Finché ci sarà un palestinese su questa terra
In mezzo a tutto questo caos, si spera che arrivi qualche buona notizia da Doha. I miei amici mi chiamano ogni giorno: “Allora, Rami, a che punto siamo?”. Da una settimana ripeto sempre la stessa cosa, che sono ottimista, che tutto si risolverà, perché la guerra deve finire e l’umanità deve prevalere. So che in molti nel mondo si stanno mobilitando per chiedere ai loro governi di fare pressione sui suprematisti ebraici di Netanyahu per fermare questa guerra e questo genocidio.
Penso però che anche Hamas debba imparare la lezione della Storia. Non ha intenzione di rinunciare alle armi. Nel 1948, i combattenti della resistenza dicevano la stessa cosa. Fu così che centinaia di migliaia di abitanti della Palestina storica vennero espulsi dalle loro città natali, Jaffa, Haifa, da tutta la Palestina settentrionale, per un esodo verso la Cisgiordania e Gaza, o oltre i confini. Ma esiste ancora la resistenza, e la resistenza, per me, è la presenza dei palestinesi sulla loro terra, non quella di imbracciare un fucile. Bisogna sempre far distinguere tra il coraggio e la saggezza, e credo che si debba essere più saggi che coraggiosi. Stiamo affrontando un leone che ci sta facendo a pezzi, uccidendoci e massacrandoci. Ma non è solo. Dietro il leone, ci sono tigri, leopardi e coccodrilli che lo sostengono. E noi, non siamo altro che gatti.
Spero che Hamas valuti bene tutte queste considerazioni, rendendosi conto che l’obiettivo di questa guerra ora è dichiarato pubblicamente: la deportazione di 2,3 milioni di persone. La resistenza contro l’occupazione non finirà con la fine di Hamas o di Fatah, né di qualsiasi altra fazione. Finché ci sarà un palestinese su questa terra, ci sarà resistenza. La Palestina non è un pezzo di terra. È la ricchezza umana, la ricchezza di quei palestinesi che vogliono prendersi cura di questa terra, rimanere vivi su questa terra e vivere in pace su questa terra.

1Nel libro dei Giudici, Gedeone è un giudice, o capitano, di Israele, figlio di Gioas, della tribù di Manasse che viene scelto da Dio per liberare gli israeliti dall’oppressione dei Madianiti. Secondo la narrazione biblica, Gedeone guida un piccolo esercito contro le forze madianite molto più numerose.
2L’offensiva fu condotta dall’Haganah e dall’Irgun negli ultimi giorni del mandato britannico per prendere la piccola città palestinese di Beisan - oggi Beit She’an in Israele - e i suoi dintorni, al fine di bloccare il passaggio dell’esercito giordano. La maggior parte dei circa 6.000 abitanti fuggì e molti furono successivamente espulsi in Giordania.