Diario da Gaza 99

“Walid sta gradualmente uscendo dal mondo immaginario che avevo creato per lui”

Rami Abu Jamous scrive il suo diario per Orient XXI. Giornalista fondatore di GazaPress, un’agenzia di stampa che forniva aiuto e traduzioni ai giornalisti occidentali, Rami ha dovuto lasciare il suo appartamento a Gaza con la moglie e il figlio Walid di due anni e mezzo. Rifugiatisi a Rafah, la famiglia è stata poi costretta a un nuovo esilio prima a Deir al-Balah, poi a Nuseirat, bloccata come tante famiglie in questa enclave miserabile e sovraffollata. Un mese e mezzo dopo l’annuncio del cessate il fuoco, Rami è finalmente tornato a casa con sua moglie, Walid e Ramzi, il bambino appena nato. Per il suo Diario da Gaza, Rami ha ricevuto tre riconoscimenti al premio Bayeux per i corrispondenti di guerra. Questo spazio gli è dedicato dal 28 febbraio 2024.

Due paia di scarpe sporche di sangue, avvolte in lenzuola macchiate.
Gaza City, 26 giugno 2025. Scarpe macchiate di sangue fotografate insieme ai corpi delle persone uccise durante i bombardamenti israeliani della notte precedente, all’obitorio dell’ospedale Al-Shifa nella città di Gaza.
Omar AL-QATTAA / AFP

Domenica 13 luglio 2025.


— Papà, guarda, c’è un elicottero sopra di noi.
— Sì, Walid, l’ho visto. È bello.
— No, papà, non è per i paracadute, è per i fuochi d’artificio.
— Sì, ma anche i fuochi d’artificio sono belli, no?
— Papà, quei fuochi d’artificio fanno male. Distruggono le case. Guarda cosa hanno fatto l’ultima volta. Hanno distrutto delle case.
— Ma no Walid, quelli non distruggono le case, sono fuochi d’artificio. È stato un errore.
— No, papà, vado a chiamare la polizia. Devono fermare i fuochi d’artificio.

Questo è il dialogo che ho avuto con mio figlio Walid l’altro giorno. Da qualche tempo, droni ed elicotteri sorvolano le nostre teste, li vediamo molto bene dal nostro appartamento al nono piano nel centro di Gaza City, uno dei pochi edifici rimasti in piedi. Mentre parlavamo, un missile è partito da uno degli elicotteri con un sibilo. L’abbiamo visto distruggere parte di un edificio a poche centinaia di metri dal nostro.

Walid, nel suo francese infantile, li chiama “tartifices”. Dall’inizio della guerra, gli ho fatto credere che missili e bombe non sono altro che fuochi d’artificio. Ma ora che sta per compiere quattro anni, mio figlio comincia a capire che questi “fuochi d’artificio” possono essere pericolosi e che gli elicotteri non sono lì per paracadutare pacchi di aiuti umanitari, come avevano fatto gli aerei all’inizio dell’invasione israeliana. Ecco perché voleva chiamare la polizia: quell’elicottero non stava usando bene i fuochi d’artificio, li stava usando per distruggere delle case. Walid sta gradualmente uscendo dal mondo immaginario che avevo creato per lui, per proteggerlo dalla realtà mortale che stiamo vivendo.

La legge coloniale impone le regole del gioco

Allo stesso tempo, Walid capisce che deve esserci una forma di giustizia sulla terra. Voleva “chiamare la polizia” per far valere la legge. A mio figlio piacciono gli elicotteri, sogna un giorno di salire su uno di questi per far danzare in un gioco di luci i fuochi d’artificio e lanciare dei paracadute. Ma in quel caso, per lui quell’elicottero aveva fatto un cattivo uso dei fuochi d’artificio. La giustizia è qualcosa di innato negli esseri umani, è universale. Ma non quando si tratta dei palestinesi. Noi viviamo l’ingiustizia dal 1948. Questa volta però si manifesta alla luce del sole. L’Occidente non cerca più di nasconderla dietro una narrazione di propaganda. Non chiude più gli occhi.

Non mi riferisco a quelli che, tra le popolazioni occidentali, hanno manifestato per la giustizia e per i palestinesi. Per la maggior parte dei leader, l’ingiustizia è contro Israele. La Francia e l’Italia hanno permesso all’aereo di Netanyahu di sorvolare il loro spazio aereo, ignorando così il mandato di arresto emesso dalla Corte penale internazionale (CPI) nei suoi confronti. Non solo non lo hanno arrestato, ma continuano a sostenerlo fornendogli materiale bellico. Al contrario, Microsoft licenzia i dipendenti che hanno manifestato a favore di Gaza. Le banche impediscono alle associazioni di trasferire fondi a Gaza. Gli Stati Uniti sanzionano i magistrati della Corte penale internazionale e tutti quelli che non approvano la politica di Israele. Di recente, hanno aggiunto alla loro lista anche Francesca Albanese, la relatrice speciale delle Nazioni Unite, una delle poche personalità di livello internazionale a denunciare un genocidio nella Striscia di Gaza. È stata sanzionata perché ha detto la verità. A poco a poco, stiamo scoprendo la realtà di quei “valori” di cui ci parla l’Occidente soprattutto quando viene a conquistare i nostri territori: “Vogliamo liberarvi dall’ingiustizia, darvi la democrazia e i diritti umani”, dicono da sempre i leader occidentali. Ora è chiaro che sono solo parole, che il vero motore è il profitto. Possiamo vedere ancora una volta che non esistono né giustizia né democrazia, e che è la legge coloniale, quella del più forte, a dettare le regole del gioco.

È esattamente ciò che fa l’esercito di occupazione. Il 7 ottobre è finito per diventare una grande opportunità per Israele di fare oggi ciò che non è riuscito a portare a terminare dal 1948: espellere l’intera popolazione palestinese da Gaza. Il dibattito sull’opportunità o meno di usare la parola genocidio nasconde la realtà del progetto israeliano: la deportazione con la forza dell’intera popolazione di Gaza. E se non funziona con la forza, funzionerà con un maggior uso della forza. Vale a dire, più massacri, più carneficine, più “israelerie” per far andare via i gazawi.

Né una città, né umanitaria: un campo di concentramento

Recentemente, il ministro della Difesa israeliano – o meglio, il ministro della Guerra – ha annunciato l’intenzione di creare una “città umanitaria” a Rafah. A Rafah non c’è più vita, non c’è più un solo edificio che sia rimasto in piedi. Gli israeliani l’hanno trasformata in una landa desolata, proprio per costruirvi questa “città umanitaria”. Secondo il ministro, la città potrà accogliere inizialmente 600.000 persone, con la possibilità di trasferirvi, in futuro, l’intera popolazione di Gaza. Quelle 600.000 persone sono i gazawi che vivono nella “zona cuscinetto” decretata da Israele, larga due o tre chilometri a partire dal confine che separa Gaza da Israele. In altre parole, circa il 40% della superficie di Gaza verrebbe trasformata in una no man’s land.

Quella città non è né una città né umanitaria: non avrà nessuna delle infrastrutture di una vera città. Sarà un campo. Gli ingressi verranno controllati. I membri di un partito o di una fazione non potranno entrarvi. L’ingresso sarà “volontario”, ma, una volta entrati, non sarà possibile uscirne, se non per andare in esilio in un paese straniero. Una decisione che sarà, anch’essa, “volontaria”.

In questo modo, il ministro spera di dare una parvenza di legalità al suo piano, come Israele ha sempre fatto. Anche in questo caso, avvocati, associazioni e ora anche uomini politici hanno dato a questo progetto il suo vero nome: “Mi dispiace, ma si tratta di un campo di concentramento”, ha dichiarato il 13 luglio l’ex primo ministro Ehud Olmert in un’intervista al quotidiano britannico The Guardian, aggiungendo: “Non si può interpretare diversamente questa strategia, che non mira a salvare i palestinesi, ma a deportarli, a mandarli via, a cacciarli fuori”.

Sono parole – “campo di concentramento”, “deportazione” – che hanno un peso notevole quando vengono pronunciate da un uomo politico israeliano. Non c’è dubbio che molte più persone le useranno quando a Gaza non ci sarà più nessuno, quando l’intera popolazione verrà uccisa o deportata. E, a quel punto, il mondo aggiungerà: “È stato proprio un genocidio. Un genocidio senza precedenti nel nostro secolo”.

L’unica etnocrazia del Vicino Oriente

Walid crede ancora in una giustizia che possa impedire i “tartifices”, gli abusi. Sono quelli che governano il mondo che non ci credono. Un bambino di quattro anni è in grado di distinguere tra il bene e il male, ma loro no. L’Occidente, e in primo luogo gli Stati Uniti, vuole far credere al mondo che tutto ciò che Israele fa contro la popolazione palestinese è colpa dei palestinesi. Secondo questa narrazione, Israele sta cercando soprattutto di migliorare la vita dei palestinesi. È Hamas che tiene in ostaggio i 2,3 milioni di abitanti di Gaza. È a causa di Hamas che vengono distrutti gli ospedali, le infrastrutture, le scuole, le università. È a causa di Hamas che vengono annientati 2,3 milioni di persone – e perché, nel 2006, i palestinesi hanno votato per Hamas. È stato l’Occidente a incoraggiare i palestinesi a tenere elezioni legislative nei territori palestinesi, ma dopo la vittoria di Hamas, l’Occidente non ha accettato la democrazia, perché l’esito delle elezioni non gli andava bene. Mi viene da sorridere quando sento dire che Israele è “l’unica democrazia del Medio Oriente”. Sarà piuttosto il caso di parlare di “etnocrazia” di fronte a un Paese che si è definito, con una legge del luglio 2018, come “lo Stato-nazione del popolo ebraico”.

Il mio consiglio agli occidentali, se vogliono avvicinarsi alla realtà, è dire che Israele è “l’unico Stato etnocratico del Medio Oriente”. E in nome dell’etnocrazia, che questo Stato ben organizzato imprigiona, uccide, tortura, occupa territori e progetta di espellere i palestinesi dalla loro terra. La popolazione di Gaza è allo stremo. Da uno sfollamento all’altro, da un bombardamento all’altro, da un massacro all’altro, da un genocidio all’altro. Vive una carestia sempre più grave, con l’unica soluzione rappresentata dalle elemosine del carnefice che pretende di darci da bere e da mangiare, solo per giocare con noi come si gioca ad Hunger games: nei centri di distribuzione, i più forti possono prendere una scatola di cibo, i più deboli invece vengono uccisi dai proiettili e dalle granate dell’esercito israeliano in agguato.

Tutto questo avviene sotto gli occhi del mondo intero, dove la maggior parte delle persone non ha né gli occhi né il cuore di Walid per distinguere tra il bene e il male.

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